Villa, bella Villa
da "Il Mattino" del 9 marzo 2012
Pietro Treccagnoli
La Villa Comunale sarà il green front delle regate della Coppa America. Forse sarà l’unica parte della città che impatterà con il circo velico. Di sicuro è l’area che vedrà una vrenzola di restyling. E a onor del vero stanno lavorando di lena e qualcosa è stata già rimessa a nuovo: le mura esterne della Casina delle Belle Arti, per dirne una, eternamente in restauro, perennemente scrostate, speriamo che duri fino all’estate. E i caschi gialli ci danno dentro anche al Tempietto del Tasso. La tarda primavera mette a nudo la Villa, prima dell’esplosione floreale. È sufficientemente grigia sotto il cielo uggioso. Per la salsedine che viene dal mare, potrebbe essere bafuogno, se non facesse freddo. Così lungo i viali e sulle panchine ci sono solo gli infaticabili della corsetta e le badanti in permesso sindacale. A lavorare ci sono gli operai che potano le piante spoglie attorno alla vasca delle paparelle. I lavoratori dell’Arin fanno il giro delle fontane per pescare le foglie. Ma quelle che dovevano cadere sono cadute da mesi.
La Villa è un perenne work in progress al quale i napoletani si sono rassegnati. L’Acquario è addobbato da tempo immemorabile con le finte pareti che annunciano il continuo restauro. La Cassa Armonica è recintata da transenne. Il cantiere della Linea 6 del metrò ha aperto ferita dal lato della Riviera di Chiaia che chissà quando si cicatrizzerà. Ma soprattutto l’ex-Circolo della Stampa, quel gioiello dell’architettura razionalista, firmato nel 1948 da Luigi Cosenza e Marcello Canino, è uno scandalo decennale. Da quando, a fine anni Novanta, Bassolino espulse i giornalisti è rimasto un buco bianco, un’opera-lumaca. Ora la chiamano Casina nel Boschetto, ma non c’è né la Casina e né il Boschetto. Sarebbe potuta essere una location con i fiocchi per gli addetti ai lavori. Ma è andata, per ora.
Da quello che si sa, per la Coppa America metteranno mano alla pavimentazione, riducendo al minimo le molestie del taglime (tufo volante) che fa polvere a ogni alito di vento, scirocco o tramontana che sia. Ma il peggio lo danno le fontane. Imbrattate dalla zella delle scritte (tra ultrà e fidanzatini finisce patta) e fracassate forse a colpi di pallone che feriscono con la precisione dei martelli. Nasi e braccia rotti, in particolare la fontana del Ratto d’Europa (opera di Angelo Viva). Altre sculture hanno le gambe spezzate. Avrebbero bisogno di un buon ortopedico a piede libero. Dall’altra parte di viale Dohrn, l’imbratto selvaggio non dà scampo nemmeno allo slanciato monumento equestre di Armando Diaz, il generale nel suo labirinto di fregnacce a colori, dichiarazioni d’amore in forma di sms che bisognerebbe multare mille euro a battuta. Persino sulle giostrine (quelle che non sono state ancora rinnovate) hanno disegnato un teschio. Decorazioni vandaliche e corsare che non risparmiano le storiche panchine di piperno.
Ancora, a quasi quindici anni dagli interventi di Alessandro Mendini, non si sono sopite le polemiche sul presunto snaturamento del carattere architettonico della Villa. Quale carattere, poi, resta da capire, perché il parco cittadino è un patchwork di epoche e di stili. Dal borbonico al liberty, al razionalista. Ci leggi i gusti di due quasi due secoli e mezzo di storia di Napoli. Quindi anche gli interventi vagamente disneyani degli chalet colorati sono il segno dei tempi. Anzi a guardarselo dalla Cassa Armonica, lo scorcio dello chalet blu, con le palme ancora vive in primo piano e la sagoma coccodrillesca di Capri sullo sfondo, è un colpo caraibico, sempre che si sia ben disposti. Tristi Caraibi, però, come i tropici di Levi-Strauss. Ai molti lampioni dorati che si slanciano come supposte tra i viali mancano le punte luminose. I fidanzatini ringraziano, ché il buio si addice al pomicio. Sorveglianza permettendo, che da qualche tempo è all’erta, ma sempre ben disposta a chiudere un occhio sulle partitelle dei liceali ammaestrati al filone.
Arriverà la Coppa, e i rumori delle ruspe che con ritmi stakhanovisti rimodellano la scogliera della Rotonda Diaz ne sono il loop dal ritmo tamburreggiante, arriverà e tutti sperano che lascerà un segno che non sia uno sfregio. Come lo sono, appena fuori il cancello principale, i cassonetti di piazza Vittoria, proprio di fronte alla griffata via Calabritto, messi lì a ricordare l’eterna Beirut che ci suppura dentro come una malattia.