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Grande ricerca padre Michele Miele, domenicano, pubblicata su «Napoli Nobilissima» nel 1993, sulla figura di Fra Nuvolo, il frate architetto che ha dato a Napoli le mirabili chiese con le imponenti cupole che caratterizzano il paesaggio ancora oggi. Scopriamo che il povero frate fu oggetto di un colossale equivoco che ha portato a individuarlo con un altro nominativo e che spesso possiamo trovare in vari libri anche "d'autore"


Personalità di Fra Nuvolo

Fra Nuvolo non è uno sconosciuto. Chi si occupa della città di Napoli, della sua storia, in particolare delle sue vicende urbanistiche e architettoniche, non può, prima o poi, non imbattersi in questo architetto giustamente famoso per la soluzione geniale che riuscì a trovare nel caso del completamento del campanile della basilica del Carmine e per aver dato la paternità ad altri edifici sacri della Napoli del Seicento, primo fra tutti la basilica della Sanità, il suo capolavoro. Chi poi è più addentro in un certo genere di studi sa pure che, per lo storico inglese dell’architettura italiana del Sei-Settecento Rudolf Wittkower, l’«affascinante» talento di fra Nuvolo fu in grado di creare templi «straordinariamente interessanti e progressisti», affermazione che lo studioso d’oltre Manica riserva in particolare a San Sebastiano e a San Carlo all’Arena. Anche per uno studioso come Arnaldo Venditti, della Facoltà di Architettura di Napoli, il frate architetto si distinse per «eccezionali capacità creative».
Ma altro è scorgere il riverbero della personalità di fra Nuvolo nei disegni e negli edifici che egli ha lasciato ai posteri, altro è ricavarne i lineamenti dai documenti che si occupano della sua vita, rimasta finora in una quasi completa oscurità. C’è anzi da chiedersi se è possibile parlare della sua personalità coi pochi elementi che – come fra poco vedremo – si sono aggiunti a quelli noti fino a ieri, in base ai quali non si andava al di là delle sue origini napoletane, del suo stato di converso e del fatto che visse in una comunità osservante ai piedi di Capodimonte. Ci sono fonti sufficienti per far emergere fra Nuvolo dal buio in cui è stato a lungo immerso, dalle così dette pieghe della storia? Ha senso un profilo credibile di questo artista domenicano che ha contribuito col suo gusto originale a creare la Napoli monumentale che conosciamo?

L’intruso Giuseppe Donzelli

Prima di azzardare una risposta è necessario liberare il personaggio da alcune strane incrostazioni, che hanno finito per cambiargli gli stessi connotati anagrafici. Non si tratta di un’affermazione a effetto, ma della pura verità. A fra Nuvolo, infatti, a un certo momento si è venuto a sovrapporre – ma si tratta di una vera e propria sostituzione – un certo Giuseppe Donzelli. Chi sia costui, lo vedremo fra poco. Per ora contentiamoci di andare a vedere il Lessico universale italiano edito dalla Treccani in vari volumi. Lo studioso interessato al nostro personaggio trova sia la voce Nuvolo che la voce Donzelli, col relativo richiamo. Fra Nuvolo sarebbe il nome «più noto», quello sotto il quale l’architetto napoletano è comunemente conosciuto: ma egli si sarebbe chiamato propriamente Giuseppe Donzelli. Di conseguenza, la voce principale è la prima (fra Nuvolo), ma solo per ragioni di notorietà. Questo testo risale al 1970. Al 1958 risale invece il volume riservato alla lettera comprendente l’architetto napoletano nel Dizionario enciclopedico italiano, sempre della Treccani, che allude solo a fra Giuseppe Nuvolo e ignora del tutto Donzelli. Disaccordo, incertezza o «progresso» nei vari autori delle voci menzionate?
Per quanto curiosa la cosa possa sembrare, il rinvio abituale da fra Nuvolo a Giuseppe Donzelli, come al vero appellativo del nostro personaggio, è di data piuttosto recente. Se non mi sbaglio, risale alla data di pubblicazione di un fortunato libro di Roberto Pane, Architettura dell’età barocca in Napoli (Napoli 1939), che, a sua volta, sembra seguire l’esempio dato due anni prima da Gino Chierici. In concreto, dal 1939 in poi l’autore della cuspide del campanile del Carmine ha avuto una doppia denominazione: «Fra Nuvolo, al secolo Giuseppe Donzelli». Io stesso, sia pure senza molta convinzione, mi attenni a quest’uso nella mia storia della riforma della Sanità del 1963, anno in cui non avevo ancora fatto ricerche specifiche sull’argomento. Quando il Dizionario biografico degli Italiani, alcuni anni fa, cominciò a organizzare l’assegnazione delle voci per la lettera D, pensò naturalmente a Donzelli, che chiese a me. Accettai. Questo mi permise di diradare un po’ l’imbroglio o rete creata surrettiziamente intorno a fra Nuvolo.
Cominciai dal chiedermi perché Giuseppe Donzelli sarebbe stato chiamato fra Nuvolo. «Chiamato», poi, da chi, e perché? Se, anzitutto, egli visse da frate, quale fu il suo nome in convento? Se si parla pure di fra Giuseppe Nuvolo, vuol dire, per lo meno, che Giuseppe Donzelli non cambiò il proprio nome di battesimo nel vestire l’abito domenicano, ciò che era contro tutte le consuetudini del tempo, tanto più se pensiamo che fra Nuvolo entrò in un convento di stretta osservanza e quindi esigente su certe cose. Ammesso e non concesso il mancato cambiamento di nome, non si capisce, d’altra parte, perché si dica pure «al secolo Giuseppe Donzelli», quando occorrerebbe limitarsi a menzionare, in questo caso, il solo cognome. Perché, poi, affibbiargli il soprannome di fra Nuvolo? Quali le ragioni concrete?
Tutto questo polverone sollevato intorno alla figura del converso architetto è la spia dell’estrema scarsità di notizie biografiche che lo riguardano. Neanche i pochi dati concernenti le sue opere architettoniche ci illuminano molto. Fino a qualche tempo fa la sua attività veniva collocata tra il 1575 e il 1636, con, al centro, la costruzione di Santa Maria della Sanità, che risale agli anni 1602-1613. Dal libro dei consigli conventuali e da un registro di spesa Gioacchino Francesco D’Andrea ha potuto dimostrare che l’architetto domenicano operò fino al 1636-1637 e che inizialmente egli era «mastro d’ascia», falegname.
Come chiarire le cose, a cominciare dalla doppia denominazione? È possibile delimitare meglio gli anni della sua attività? Che dire del suo titolo di architetto? È abusivo? Deve qualcosa alla sua famiglia o al periodo anteriore all’entrata in convento?

Origine e fortuna della strana incrostazione

La prima cosa da fare è sapere come è venuto fuori questo Giuseppe Donzelli, che non compare – si badi – prima del Settecento, per quanto mi consta.
Tutti gli autori del Seicento, sia quelli a stampa che quelli i cui scritti restano ancora inediti, non conoscono infatti Giuseppe Donzelli, che non risulta ancora inventato. Fra Nuvolo non ha bisogno quindi di spartire con lui la sua fama. Mi riferisco a Cesare d’Engenio, che nel 1623 ne parla senza nominarlo («col disegno d’un loro converso han fabbricato una magnifica e bella chiesa con monasterio»); al domenicano Ottaviano Bulgarini, che scrive nel 1689 e che non lesina lodi al celebre converso architetto; a Carlo Celano (1692), che parla egli pure del «famoso architetto» fra Giuseppe Nuvolo. Celano apprezza fra Nuvolo per i suoi disegni, modelli, chiese e campanili. Quanto agli inediti, il pensiero va al confratello di fra Nuvolo, Giuliano de Fiore, che, nella sua cronaca del 1630, parla di fra «Gioseffo Nuvola» e lo ritiene «uno de’ primi architetti che si conosca in Napoli».
Nei registri di cassa e di consiglio di Santa Maria della Sanità, infine, fra Nuvolo, è chiamato semplicemente «fra Giuseppe converso», senza il cognome.
La situazione non muta nel Settecento, se stiamo alle opere a stampa. In questo caso posso riferirmi a Serafino Montorio (Zodiaco di Maria, Napoli 1715), Pio Tommaso Milante (De viris inlustribus Congregationis Sanctae Mariae Sanitatis, Neapoli 1745), e Giuseppe Sigismondo (Descrittione della città di Napoli e suoi borghi, Napoli 1788-1789). Altrettanto si dica di buona parte dell’Ottocento. In tale secolo sia la consolidata tradizione delle Guide della città (Sasso, Galante) che quella domenicana (Vincenzo Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Bologna 1878-1879) continuano sulla linea precedente, salvo qualche abbaglio in fatto di cronologia. A esprimersi in modo totalmente distorto è forse Francesco Ceva Grimaldi (Della città di Napoli, Napoli 1857), che moltiplica fra Nuvolo per tre (fra Giuseppe, fra Antonio e fra Andrea). Chi spezza in maniera netta il corso della tradizione è Gaetano Filangieri che, nei suoi Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane (III, Napoli 1885), accoglie senza battere ciglio il passo di una platea del monastero napoletano dei Santi Pietro e Sebastiano completata nel 1714, il cui autore, Filippo d’Aloisio, introdusse per la prima volta, in aperta polemica con Celano, il fantomatico Giuseppe Donzelli. Il passo decisivo del manoscritto, tuttora conservato nel fondo Monasteri soppressi dell’Archivio di Stato di Napoli (col n. 1386), è questo: «Al presente la chiesa [della Sanità] è una delle più belle e magnifiche della città... [costruita] sul disegno che fu del celebre architetto dell’istessa religione, chiamato fra Giuseppe Donzelli, benché il canonico Celano nelle sue notizie istoriche voglia che sia Nuolo il suo cognome». Da notare che Filangieri non conosce l’anno in cui la platea venne completata e afferma erroneamente che l’autore è anonimo.
Ma cosa dire di questa affermazione di d’Aloisio? Per lui Giuseppe Donzelli, meglio «fra Giuseppe Donzelli», è l’architetto che altri hanno fatto passare per fra Giuseppe Nuvolo. È possibile saperne di più, dal momento che è domenicano e celebre, come d’Aloisio scrive nel passo ora riportato? I due aggettivi indicano che non dovrebbe essere difficile individuarlo. Purtroppo accade esattamente il contrario: i domenicani hanno avuto dei Donzelli, ma nessuno che sia stato architetto, e celebre per giunta. Dove l’autore della platea ha preso allora questo nome? Allo stato delle ricerche non è possibile dirlo. Una cosa però è sicura: che d’Aloisio non conosce molto l’ambiente domenicano, pur essendo stato incaricato di compilare un lavoro per le domenicane del monastero dei Santi Pietro e Sebastiano (o semplicemente di San Sebastiano). In tale veste dovette necessariamente sfogliare e utilizzare moltissimi documenti del monastero, ma non riuscì mai a familiarizzare a fondo con l’assetto istituzionale proprio dell’ordine dei domenicani, cui pure era tenuto, se voleva parlare con competenza di un Donzelli domenicano che si celava dietro fra Nuvolo. Diversamente non avrebbe usato l’espressione «Padre Generale del monastero della Sanità» per riferirsi al responsabile locale dei frati della riforma della Sanità, e cioè o semplicemente al priore del convento o al vicario generale dell’intera congregazione della Sanità. Un modo così approssimativo di esprimersi nel parlare dei domenicani – il «Padre Generale», per essi, era in realtà solo il capo di tutto l’ordine e risiedeva a Roma – sarebbe stato impossibile per chi fosse stato veramente addentro nelle cose dell’ordine. Perché allora dovremmo credergli quando si permette di sostituire fra Nuvolo con Donzelli, tanto più che l’intera tradizione precedente, stampata e manoscritta, dice il contrario? Il fatto è che Filangieri, che già nell’indice dell’opera ora citata rinvia da fra Nuvolo a fra Giuseppe Donzelli, avallò con la sua autorità scientifica questo vero colpo di mano di d’Aloisio. La base era ormai posta per le successive falsificazioni.
Ma queste non ebbero corso immediatamente. Gli studiosi, per esempio, che collaborarono alla prima e alla seconda serie di «Napoli Nobilissima» (Giuseppe Cosenza, Giuseppe Ceci e Luigi Serra), pur conoscendo benissimo Filangieri, si guardarono bene dall’accettarne il suggerimento quando ebbero ad occuparsi (tra il 1909 e il 1921) dell’architetto della Sanità. Per essi non ci fu che il solo fra Nuvolo. Lo stesso si dica dell’anonimo compilatore della voce relativa nel venticinquesimo volume del noto Lexikon tedesco di Thieme e Becker, pubblicato nel 1931. Abbiamo visto che anche il Dizionario enciclopedico italiano si attenne, nel 1958, alla stessa linea prudenziale. Nel frattempo aveva già preso il suo avvio trionfale la fantasiosa ipotesi settecentesca di d’Aloisio, sia pure grazie all’involontario avallo di quell’insigne e benemerito storico dell’architettura che fu Roberto Pane.

I dati forniti dal processo De Fusco

Quanto detto fin qui restituisce finalmente fra Nuvolo a se stesso dopo averlo liberato da quella strana controfigura costituita da Giuseppe Donzelli, il che ci permette di avvicinarci alla sua personalità. Ma di questa continuiamo a sapere poco o nulla. Non è Giuseppe Donzelli, d’accordo; ma, allora, chi è? Sapere che alla sua qualifica di architetto vissuto a Napoli tra il 1575 e il 1636/37 si è aggiunta ultimamente anche quella di esperto «mastro d’ascia», non è molto.
Per saperne di più occorre ascoltare lo stesso interessato. E questo è reso possibile grazie a un paio di deposizioni che fra Nuvolo fu chiamato a fare sotto giuramento davanti a un tribunale diocesano incaricato di istruire la causa di beatificazione di un confratello suo amico, Giovanni Leonardo de Fusco, morto nel 1620. Quello stesso anno e negli anni seguenti tutta una serie di testimoni sfilò davanti allo stesso tribunale per dire la sua. Fra Nuvolo, che appare nelle carte di questo processo diverse volte dal 1620 al 1632 (in alcuni elenchi, nell’intimazione a presentarsi davanti ai giudici, nelle varie deposizioni, sue e degli altri testi), fu convocato dal tribunale tre volte, il 24 luglio 1620, il 28 gennaio 1622 e il 3 febbraio seguente, la prima e la terza volta per deporre, la seconda per la sola identificazione del teste. In tutti questi casi il converso architetto è chiamato abitualmente «fra Giuseppe di Napoli» o «fra Giuseppe Converso» e simili. Solo nelle testimonianze del 1622 il cognome viene riportato ripetutamente. Nella deposizione del 1620 è possibile leggere anche la sua firma in originale. Nel deporre, il teste, oltre a far riferimento alla deposizione precedente (nel secondo caso, evidentemente), dichiara come si chiama, come si chiamava nel secolo, qual è il suo cognome, chi era il padre, che età ha in quel momento. Nel corso della prima deposizione allude anche al momento preciso in cui entrò in convento. Peccato che non sia riuscito a deporre, come fecero altri testi, per la terza volta (nel 1632). Se l’avesse fatto, conosceremmo anche il nome della mamma. Quest’altra deposizione mancò non per colpa sua, ma perché il tribunale entrò in crisi in quanto fu proprio allora che papa Urbano VIII prescrisse nuove regole per i processi di beatificazione. La prima di queste regole comportava che, prima di poter continuare i processi in corso, occorreva procedere alla nomina di una nuova commissione, il che non avvenne.

I punti fermi della biografia di fra Nuvolo

Con i dati fin qui raggranellati è già possibile stabilire alcuni punti fermi riguardanti la biografia di fra Nuvolo. Mettendo insieme le varie affermazioni sull’età da lui volta per volta dichiarata è possibile anzitutto fissare la sua data di nascita, che va collocata tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio 1570. Il suo nome di battesimo, più volte attestato, era Vincenzo. Il cognome ha la forma «de Nuvola» Il padre portava il nome di Domenico. La sua recezione all’abito avvenne «un mese in circa prima» di quella di de Fusco, che risale, come ricaviamo da altre fonti, al 15 agosto 1591. Il giovane Vincenzo Nuvolo, quindi, si fece frate a ventun’anni. Se la sua morte, come si ricava dai dati forniti da Gioacchino D’Andrea, avvenne tra l’agosto 1636 e il 27 luglio 1637, l’architetto domenicano si spense all’età di sessantasei o sessantasette anni.
Non basta. C’è ancora qualche dato da estrarre dal registro di cassa del convento della Sanità. Si è creduto che fra Nuvolo, in origine «mastro d’ascia» e in quanto tale addetto alla falegnameria del convento, abbia appreso il suo mestiere di architetto stando, in qualità di «creato», alle dipendenze di Fabio di Bruno, capo cantiere nella costruzione del complesso della Sanità. Ciò risulterebbe da diverse pagine del libro di cassa di questo convento, ove si parla ripetutamente del «creato» Giuseppe e della sua stretta dipendenza dal di Bruno.
Ma, per me, è escluso che il «creato» Giuseppe, nominato più volte nel registro di cassa a partire dal 5 marzo 1589, sia da identificarsi col nostro fra Giuseppe Nuvolo, che entrò nell’ordine due anni e mezzo più tardi. Si potrebbe, certo, pensare che egli abbia operato da laico con la medesima incombenza anche prima. Non si capirebbe però perché, in tal caso, non conservi il suo nome di battesimo, Vincenzo, e porti già il nome che assumerà da religioso, per di più senza il prescritto «fra» iniziale.
Non ci sono dubbi invece sul fatto che fra Giuseppe Nuvolo era in origine «mastro d’ascia», come del resto un suo fratello rimasto laico, presente anche lui, almeno una volta, nello stesso registro di cassa del convento. Ma, anche qui, è importante rilevare la data iniziale in cui appare con tale qualifica: il 26 agosto 1591, cioè poco più di un mese appena dopo la sua vestizione da frate. In tale data gli venne fornita, unitamente al converso fra Domenico – anche lui «mastro d’ascia» – tutta una serie di ferri da falegname comprati espressamente. Egli dunque entrò in convento quando aveva già un mestiere, appreso forse in famiglia. Sarà con questo mestiere che verrà poi ricordato spesso negli anni seguenti, prima cioè che tale qualifica venga soppiantata da quella di architetto.
La recezione dell’abito non darà subito a fra Nuvolo la qualifica di converso, che appare nel registro solo a partire dal 19 febbraio 1593. Prima di passare a questo stato egli compare come terzino, terziario, o «terzoabito». Non si attese comunque il riconoscimento ufficiale di fratello converso per dare all’industrioso fra Giuseppe compiti di fiducia nei lunghi anni in cui si continuò la fabbrica del convento della Sanità, iniziata fin dal 1588. Già il 4 novembre 1591, a quattro mesi appena dalla sua entrata nell’ordine come terziario, egli fa acquisti e consegna il danaro per la compera del legno necessario all’allestimento di porte e finestre. Negli anni seguenti provvede anche ai banchi della chiesa, del refettorio e della scuola, alle serrature delle porte, alle travi per le impalcature, alla colazione degli operai, agli strumenti da fornire ai mastri fabbricatori, alla pulizia dei locali, alla compra di lenze e cartoni per misure e modelli.

La qualifica di architetto

Quando e come, allora, è diventato architetto? Qui occorre intendersi. Noi siamo abituati a collegare l’architetto con la sua brava laurea universitaria. Nel Cinque-Seicento le cose andavano diversamente. A quei tempi si diveniva ingegneri o architetti in forza di una grossa esperienza in ingegneria o architettura.
A proposito di questo passaggio da una qualifica all’altra, oggi impensabile, Giuseppe Russo ha potuto scrivere: «Dobbiamo oggi aggiungere – perché ce ne viene la prova da questi documenti (egli si riferisce ai documenti pubblicati da Franco Strazzullo nel suo Architetti e ingegneri napoletani dal ’500 al ’700, Napoli 1969) – che, per un lungo periodo, è solamente la pratica quella che qualifica questi tecnici come esperti in architettura, partendo essi dalle più disparate posizioni professionali: Gian Vincenzo della Monica è infatti all’inizio un piperniere; Benvenuto Tortorelli: un intagliatore; Ceccardo Benucci: uno scultore; Orazio Gisolfo: un capomastro. Ed è frequente, come nelle botteghe artigiane, che il figlio segua la professione del padre e aspiri quindi all’ufficiale riconoscimento invocando appunto le benemerenze del padre».

La maturazione

Nel caso di fra Nuvolo il salto di qualifica da «mastro d’ascia» ad architetto fu reso possibile dalle sue prestazioni nella direzione della fabbrica del convento, prima, e di quella della chiesa della Sanità, in seguito. Il passaggio dalla prima alla seconda professione va individuato soprattutto nella presentazione del progetto in legno della chiesa della Sanità prima di iniziarne la costruzione nel 1602. Il progetto – del valore di cinquanta ducati, con un «desegno de più superbi che si vedano in Italia, vasto, amplo et bello» al dire di de Fiore – venne approvato dalla sua comunità, cui si aggiunse l’entusiastico apprezzamento di Domenico Fontana, Giambattista Cavagna e Scipione Zuccaretti, architetti di grido del tempo. Fu un po’ la conclusione della discussione della sua tesi di laurea. Anche della cupola della Sanità presenterà prima un progetto in legno. Da tener presente che il progetto della chiesa venne scelto tra molti altri presentati da esperti laici, come fa sapere il cronista Ambrogio Guglielmini, vice cancelliere del Collegio dei teologi, morto nel 1605.
Il progetto, a sua volta, non fu il frutto improvviso di un lampo di genio folgorante. Il solito libro di cassa e la solita cronaca di Giuliano de Fiore ne spiegano i motivi. Nel primo si trova un silenzio assoluto su di lui dal 18 dicembre 1599 al 5 gennaio 1601, un anno abbondante in cui è ipotizzabile la sua assenza dalla casa nonostante i lavori del complesso ancora in corso; il secondo assicura che fra Nuvolo, prima di approntare il menzionato progetto in legno della chiesa, fece un lungo giro «in quasi tutta l’Italia» per osservare «le opere magnifiche de’ valent’huomini di questa professione». Il cronista non dice di più, ma se è vero ciò che gli storici dell’arte scrivono sulla dipendenza di fra Nuvolo dai modelli romani (mi riferisco a Roberto Pane e ad Arnaldo Venditti, in particolare), c’è da pensare che egli abbia sostato soprattutto a Roma, anche se la sua presenza altrove non può essere messa in discussione (può essere stato, per esempio, anche a Firenze, Milano, Venezia ecc., tutte città sedi di noti conventi dell’ordine). Una volta tornato a Napoli, fra Nuvolo, oltre a continuare la risistemazione del convento, erige con grande impegno la chiesa e la relativa cupola.
Una cronaca anonima redatta al più tardi nel 1616 così presenta la frenetica attività del geniale frate converso in questi anni: «... con tanta ardentia e con tanto animo prese questa fatica che non solo [h]a servito per architetto et soprastante, ma per fabricatore et per manipolo, quando ha bisognato, et anco poi è stato stuccatore della cupula, di modo che viene admirata et lodata da tutti, e tra altre meraviglie è che sia compita a f atto per l’anno 1613».
La qualifica di architetto non si trova solo in questa cronaca, allestita mentre era ancora vivo Marco Maffei da Marcianise, morto nel 1616, la principale colonna della riforma della Sanità. Nel lacunoso registro dei consigli del convento passato alla storia con tale nome, il titolo gli viene affibbiato dal 1611 (tornerà poi tre volte negli anni trenta). A sessant’anni, quando alle sue spalle non c’era solo Santa Maria della Sanità, ma anche San Sebastiano, San Carlo all’Arena, il chiostro di San Tommaso d’Aquino, la Sanità di Barra ecc., il titolo era anche sinonimo di fama. Nel 1630 Giuliano de Fiore non solo lo definisce «architetto di professione», ma ritiene che sia «riuscito uno dei primi architetti che si conosca in Napoli, stimato da primi signori di questo Regno, quali non fanno fabrica di consideratione senza la sua consulta».

L’ambiente che ne favorì la crescita artistica

Quanto siamo venuti dicendo fin qui serve a capire il personaggio, che però resta ancora incompleto senza il riferimento al particolare ambiente in cui è venuto a inserirsi dai ventun’anni in poi, quando cioè era già adulto e aveva un mestiere e un’esperienza. Alludo al convento in cui entra nel 1591.
Non si tratta di un convento qualunque. Non più di otto anni prima, nel 1583, la Sanità aveva accolto un gruppo di domenicani che vi avevano iniziato una rigida osservanza della regola dell’ordine. In pratica, quando fra Nuvolo viene accolto tra i frati che gli saranno a fianco tutto il resto della sua vita, era già iniziato da quello stesso convento il cammino di un movimento che avrà tutta una storia, a Napoli e nel Sud. Scopo del movimento era quello di rigenerare l’ordine nell’area meridionale. Quanto ciò fosse necessario è provato dai processi riportati dai biografi di Giordano Bruno, frate anche lui, ma a San Domenico Maggiore, dal 1565. Qualche anno dopo la decadenza morale dell’ordine è attestata anche da uno dei suoi figli migliori, Ambrogio Salvio da Bagnoli, in una lettera al cardinal Guglielmo Sirleto. L’aspirazione a invertire marcia era però già cominciata, anche se non erano mancate le solite difficoltà per realizzarla. A dare la carica agli interessati e a far cadere le ultime resistenze era stato il coinvolgimento di Napoli in un progetto simile realizzato in Abruzzo (Chieti) da un gruppo toscano diretto dal lucchese Paolino Bernardini, il difensore della memoria di Girolamo Savonarola alla corte di Paolo IV. La nuova comunità di Napoli, quella della Sanità, era partita sotto la tutela di un priore proveniente dall’Abruzzo. Si era poi resa autonoma sotto la guida di un uomo di prestigio come Ambrogio Pasca, già professore all’Università di Napoli, lo stesso che aveva ricevuto Bruno a San Domenico Maggiore, stimatissimo in città. È proprio da Pasca che fra Nuvolo prende l’abito dei domenicani.
Come si presenta la Sanità quando il futuro architetto vi entra? Anzitutto come un convento in cui i suoi frati si distinguono per l’austerità della loro vita: vanno a piedi, non mangiano mai carne, vestono poveramente, vivono di elemosina (che si procurano con la mendicità giornaliera praticata dal primo all’ultimo frate della casa), fanno lavori manuali, vivono una rigida vita comunitaria, danno grandissima importanza all’ufficio corale solenne e alla messa conventuale, momento centrale del loro contatto con Dio. Gli assi nodali di questa maniera rigida di intendere le costituzioni dell’ordine sono la vita comunitaria in un ambiente conventuale adatto e la chiesa (con il suo coro per l’ufficio notturno e diurno cantato). Non meraviglia, per cominciare da quest’ultimo aspetto, allora, se al coro della Sanità i fratelli conversi e i padri diano una importanza inconsueta, come non meraviglia che al convento e alla nuova chiesa si dedichino energie nuove. Il convento, fondato poco prima che vi si trapianti la riforma, deve accogliere tutti coloro che sono richiamati dal nuovo ideale e ha bisogno di crescere. I giovani che chiedono l’abito aumentano infatti a ritmo vertiginoso. Il cardinal segretario di Stato Girolamo Rusticucci fin dal 7 aprile 1587 ha dovuto comunicare al nunzio papale a Napoli, l’arcivescovo Giulio Rossini, che i frati della riforma installati ai piedi di Capodimonte sono fin allora «tanto cresciuti di numero che quel solo convento della Sanità non li capisce più», non ha cioè più spazio per contenerli tutti. Lo sfogo verso altri conventi, presi con metodi autoritari o offerti spontaneamente negli anni seguenti, non esime il convento originario dall’obbligo di dare spazio a tutti prima che sciamino altrove. Di qui l’urgenza di allargare gli spazi conventuali e costruire una nuova chiesa, tanto più che la Sanità è nata come luogo devozionale e il danaro offerto dai devoti non manca (il modo come è raccolto innescherà anche un processo diocesano prima che vi arrivi la riforma).
Ecco il campo di lavoro che si apre a fra Nuvolo. Egli inizia come falegname, ma prosegue poi nell’attività edilizia. La costruzione del convento e della chiesa simbolo della riforma (come il complesso di San Domenico Maggiore è il simbolo della forma tradizionale di intendere e vivere la vita dell’ordine) da modo al converso architetto di crescere anche dal punto di vista tecnico-artistico. Nasce così, grazie alla valorizzazione del suo talento, un grandioso complesso conventuale che si aggiunge ai tanti complessi di carattere sacro che vengono su, se si sta al lungo elenco di Strazzullo, nella Napoli del Seicento barocco.
Egli non è solo in questa crescita. Si è parlato del coro, che aveva bisogno di stalli in legno e libri corali per il canto. Per gli stalli si fanno i nomi di intagliatori laici. Le cronache coeve assegnano però il lavoro più importante ai conversi, compagni di fra Nuvolo. Quanto ai grossi libri corali, messi in evidenza qualche tempo fa da una mostra proprio a San Domenico Maggiore, il merito va ai miniaturisti e ai disegnatori, in parte estranei al convento, in parte suoi membri (Rosa e Ballo). A ogni modo, forse non è un caso che gli unici libri corali di grande formato rimasti, per quanto riguarda i domenicani, provengano proprio da due conventi di riforma, la Sanità e Madonna dell’Arco. Ci sono poi gli orafi e gli argentieri, come fra Azaria, altro compagno di fra Nuvolo ecc.&

Tratti della sua personalità

Ma è possibile penetrare ancora di più all’interno di questa personalità? Chi era fra Nuvolo come uomo e come frate? Per il solito Giuliano de Fiore, che scrive sei o sette anni prima che fra Nuvolo morisse, l’architetto di cui ammiriamo gli edifici era un «frate de religiosi et esemplari costumi», oltre che «di bono et curioso ingegno». Doveva trattarsi indubbiamente di un uomo quale la riforma esigeva. Anche le sue testimonianze in favore di Giovanni Leonardo de Fusco lo confermano, là soprattutto dove il frate architetto parla di fatti personali: del patto di mutua assistenza spirituale col frate di Lettere, del fatto che de Fusco fu sempre il suo confessore, della devozione ingenua che conservò verso di lui dopo morte.
Ma devozione, ubbidienza, esemplarità, per quest’uomo, non significano incapacità a esercitare all’occorrenza anche la propria libertà. Non mi riferisco solo a quella artistica, innegabile con le opere di genio che ha creato. Mi riferisco anche a quella più terrestre e pedestre che riguardava la sua vita conventuale. E qui non posso non rievocare un episodio che può fare arricciare il naso a noi uomini del XXI secolo, ma che era giudicato diversamente nella Napoli del Seicento. L’episodio è raccontato da lui stesso il 3 febbraio 1622 ai giudici del processo locale di beatificazione di de Fusco e riguarda cinque fratelli conversi. Tra essi ci sono lo stesso narratore e fra Azaria, che conferma a sua volta il racconto con la propria deposizione e lo arricchisce di qualche particolare in più. Mi riferisco alla decisione, assunta di nascosto dai padri, di aprire il cadavere di de Fusco, estrarne il cuore, le interiora e il sangue, infine richiuderlo dopo aver riempito il vuoto con erbe: «et lo cosimmo acciò non si fossero accorti i padri di quanto havevamo fatto» – attesta fra Nuvolo nella sua deposizione –, «perché lo fecimo di nostra volontà, senza farne parte all’altri padri»; «... et questo tagliamento o aprimento di corpo» – precisa fra Azaria – «lo fecimo senza licenza di superiore, che, se l’havesse saputo nel principio, forse non g’haverebbero dato qualche penitenza». Il fatto rivela devozione e curiosità insieme, ma, per questi frati della riforma, di regola così sottomessi e disponibili, anche una buona dose di autonomia e di libertà. E non si tratta di una libertà casuale che un individuo si prende chissà come, in un momento particolare. Qui è la categoria dei conversi come tale a prendersi la sua libertà senza molti scrupoli. E si badi che l’iniziativa non pare sia stata del più valido tra essi: l’architetto.
Mi sembra di poter concludere che aspetti così contraddittorî – ubbidienza e libertà –, ma pure così umani, abbiano costituito una componente importante della personalità di fra Nuvolo, come della sua arte.